Secondo un articolo apparso su IlSole24Ore, a sua volta ispirato da un editoriale di Nature, la salute mentale degli studenti di dottorato nel mondo sta peggiorando.

Sempre meno sono le persone che scelgono questa strada, e sempre più sono i dottorandi e ricercatori che si dichiarano insoddisfatti della scelta fatta.

Le motivazioni? La necessità di pubblicare a tutti i costi, e molto spesso le pubblicazioni devono seguire i diktat dall’alto; il numero di ore lavorate, molte di più rispetto a quanto pattuito; l’ambiente di lavoro non sempre sereno (ed in alcuni casi anche molesto o discriminante); la mancanza di libertà nella ricerca o per lo meno la non-corrispondenza tra le aspettative di libertà e la realtà; il disequilibrio tra la vita professionale e quella privata.

Ne consegue che circa il 36% degli intervistati ha cercato aiuto per combattere ansia e depressione durante il percorso di dottorato e circa il 30% dei ricercatori ha dichiarato di preferire il mondo dell’industria e/o del non-profit al mondo accademico.

Da un lato abbiamo quindi un mondo accademico con delle regole e delle prassi radicate per la misurazione della performance, dall’altro abbiamo l’immagine del ricercatore che gli studenti hanno in mente. E’ evidente che le due figure, ad oggi, non combaciano e che questo in alcuni studenti può portare a delle conseguenze – in termini di delusione delle aspettative – devastanti.

Così come sono convinta che la misurazione della performance nelle scuole debba cambiare, allo stesso modo credo che questo cambiamento debba coinvolgere una nuova concezione di performance e di successo trasversale e generale.
D’altronde, se questo sistema fa ammalare gli studenti (e non parlo solo del mondo accademico), li rende ansiosi e bisognosi di supporto psicologico… facciamoci una domanda e diamoci una risposta.