Quante volte ci è successo di essere in coda, in ritardo per un appuntamento, e di dire a noi stessi “spero che la coda finisca presto”; oppure guardando una partita di un qualsiasi sport e facendo il tifo per la squadra in svantaggio, di esclamare “spero che riescano a recuperare!”
E quante altre volte, ad esempio, abbiamo sostenuto un colloquio di lavoro o un esame e ci siamo detti “spero che vada bene…”?
Questa settimana mi è capitato di essere in coda (sperando che si dileguasse magicamente!!!) e anche di fare un colloquio con un possibile cliente, ma in quest’ultimo caso non ho sperato, ed ho notato una differenza sostanziale di atteggiamento – e di risultato.
Sperare, soprattutto quando parliamo di emozioni (non di traffico o di sport), rivela che partiamo da una posizione di paura. Che la fiducia in noi stessi non è solida. E attenzione: non sto dicendo di affrontare la vita con spavalderia, né sto dicendo che qualsiasi situazione affrontata con sicurezza avrà un risultato positivo – quando abbiamo a che fare con altre persone, c’è sempre da tener conto del loro libero arbitrio. Quello che dico, e ne sono convinta, è che avere fiducia in noi stessi, in quello che sappiamo, in quello che possiamo dare, in tutte le qualità positive che possiamo offrire, ci rende più calmi, più rilassati, più sicuri e anche maggiormente in grado di accettare un rifiuto per quello che è: nulla di personale nei nostri confronti.
Il mio lavoro consiste anche nell’aiutare le persone a trovare dove l’ingranaggio si inceppa in questi casi, e come è possibile rimetterlo in moto efficacemente. E questa settimana più che mai ho capito che tutto ciò ha molto più a che fare con noi stessi – e col bagaglio di credo da cui partiamo – che con gli altri.