Per un motivo del tutto casuale (un’amica mi scrive “sono” in un messaggio, io capisco che lei è, mentre lei intendeva che altri erano), mi sono trovata a riflettere sul fatto che il verbo essere è uguale se declinato alla prima persona singolare e alla sesta plurale – tempo presente. In altre parole: “io sono”, “essi sono”.

La cosa mi è sembrata curiosa e sono andata a ricercarne le motivazioni etimologiche. Ebbene, nel sito Treccani ho trovato la seguente spiegazione: “la prima persona (io) sono viene dalla corrispondente forma latina sum. I monosillabi latini terminanti con m hanno perso la m finale già nel III secolo a. C., che si è trasformata in n nella lingua italiana antica: cum > con; sum > son. In seguito, per analogia con le altre forme verbali (canto, vedo), da son si è avuto sono. La sesta plurale latina sunt ha perso ben presto la t finale. Il passaggio dal latino sun all’italiano son è stato seguìto, in epoca romanza, da quello da son a sono, avvenuto per analogia con la forma della prima persona (io) sono, ormai affermatasi nella forma piena arrivata fino a noi.”

Naturalmente, la spiegazione etimologica non mi è bastata. Trovo davvero strano, una autentica coincidenza (e io non credo alle coincidenze) che due forme verbali così diverse quali sum e sunt siano diventate la stessa cosa; negli altri tempi verbali questo non succede! E nemmeno con altri verbi!

Lungi dal voler io stessa dare vita ad una teoria alternativa, credo che il verbo essere e la sua forma al presente, identica per “io” e per “essi” ci offra una incredibile opportunità: sentirci – anzi, per l’esattezza, essere – parte ognuno di un tutto. Io sono, così come essi sono. Io esprimo me stessa, e lo faccio all’interno di un’orchestra in cui tutti “sono” qualcosa, in cui tutti, egualmente eppure con modalità diverse, contribuiscono a creare una sinfonia perfetta. E questo “sono”, per me, oggi, è un suggerimento sussurrato sulla consapevolezza di noi come unici e parte di un tutto indivisibile.